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I dentisti del Neolitico

I dentisti del Neolitico

Sono i resti di una mandibola antica di 6500 anni, rinvenuta in Istria, a raccontarci quali erano le tecniche a cui ricorrevano i nostri antenati per curare i denti: che per le otturazioni usavano la cera d'api.

Circa sei anni fa, in una necropoli risalente al Neolitico situata in un’area del Pakistan, alcuni studiosi incapparono in dei resti umani che si rivelarono di immenso valore scientifico: erano molari che presentavano evidenti segni di incisione, a forma di anelli concentrici, opera di una mano umana. Si trattava della più antica testimonianza di pratica dentistica mai scoperta fino ad allora. Altri due furono i ritrovamenti che potevano suggerire l’esecuzione di interventi odontoiatrici: uno, a tutt’oggi oggetto di qualche perplessità, nella necropoli italiana di Gaione (Parma) potrebbe indicare la possibilità di un trattamento dentale: l’altro, nel cimitero egiziano di Gebel Ramlah, è un dente artificiale dell’età della pietra, probabilmente la prima otturazione della storia (e preistoria) di cui si abbiano tracce.

Un nuovo studio suggerisce la possibilità che, nel Neolitico, tra tutte queste primitive forme di odontoiatria, fosse diffusa anche la pratica dell’otturazione: attraverso gli esami condotti su un reperto rinvenuto nei pressi del villaggio istriano di Lonche, in Slovenia, e conservato nel Museo di Storia Naturale di Trieste, i ricercatori hanno scoperto che già 6500 anni fa gli uomini avevano elaborato tecniche in grado di lenire la sofferenza causata dai problemi ai denti. Il ritrovamento consiste nel frammento della mandibola di un uomo di età compresa tra i 24 e i 30 anni: si tratta del lato sinistro con tanto di due molari, un premolare ed un canino attaccati all’osso, individuato in una grotta dove era conficcato nella parete calacarea. Il metodo del radiocarbonio ha consentito agli esperti di stabilire che il reperto risale ad un periodo di tempo compreso tra i 6655 e i 6400 anni fa, costituendo uno dei più antichi rinvenuti in tutta l’area dell’Adriatico settentrionale.

Il dente canino di quest’antico uomo che visse nell’Istria del Neolitico, forse già coltivando o magari come cacciatore-raccoglitore, presentava uno smalto usurato che lasciava esposta la dentina e, oltretutto, era diviso da una frattura profonda che arrivava fino alla polpa. Per questa ragione (forse servendosi dell’aiuto di un ignoto “dentista” dell’antichità?) il giovane rimediò al problema utilizzando un rimedio naturale, ovvero la cera d’api che, rivestendo la superficie dentale, poteva servire ad arginare il danno provocato dalla spaccatura e riempire la cavità creatasi: chiaramente per gli studiosi è impossibile stabilire se la copertura con questa sostanza naturale fosse stata fatta quando l’uomo era ancora in vita o dopo la sua morte, ma è altamente probabile che l’intervento avesse proprio lo scopo di attenuare il fastidio causato dallo smalto consumato e dalla spaccatura. Oltretutto, danni ai denti di quel tipo erano assai frequenti e pronunciati all’epoca, in riflesso di una dieta che ricorreva tantissimo alla masticazione, anche prolungata, dei cibi: non è dunque fuori luogo supporre che gli uomini del tempo avessero pensato a qualche tecnica per rispondere allo stress a cui erano sottoposti i loro denti.

Grazie alla micro-tomografia computerizzata, i ricercatori hanno potuto osservare la copertura in 3d senza danneggiare lo stato del reperto: una volta rilevata la presenza di cera, ne è stata prelevata una quantità minima che, analizzata con il metodo del radiocarbonio, ha rivelato essere risalente alla stessa epoca del canino malato del giovane uomo istriano, allontanando così il dubbio che il materiale fosse accidentalmente finito sul dente in un momento successivo. La stessa frattura del canino ha necessitato di un’approfondito esame che confermasse che non si trattava di un trauma post-mortem: la particolare conformazione della spaccatura, che procede dallo smalto in direzione della dentina sarebbe per gli studiosi un indizio sufficiente. Il caso contrario, invece, in cui la frattura si propaga dalla dentina in direzione esterna verso lo smalto, è più frequentemente riconducibile al danno post-mortem in quanto conseguente alla mancanza di acqua e, dunque, alla disidratazione. Il lavoro ha visto la collaborazione di scienziati di diverse nazionalità sotto la guida del Professor Federico Bernardini del Centro Nazionale di Fisica Teorica di Trieste e i risultati sono stati pubblicati dalla rivista PLOS ONE.